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I misteri del Brunello
Uno dei più celebrati vini al mondo deve la sua notorietà alla famiglia Biondi Santi che lo commercializzò a partire dalla metà dell’Ottocento.
di Gimmo Cuomo
In molti lo amano senza riserve. Ma anche i pochi che non lo pongono in cima ai personali gusti enologici non possono fare a meno di riconoscerne i pregi e la personalità nobiliare. Sia come sia, il Brunello di Montalcino condivide ex aequo col piemontese Barolo l’invidiabile primato di migliore vino rosso italiano, in grado di competere ad armi pari con i celebrati Premier Grand Cru Classé del Medoc. Nasce esclusivamente da uve sangiovese in purezza (il sangiovese grosso detto appunto localmente brunello) e dà il meglio di sé molti anni dopo la commercializzazione che, già secondo il rigoroso disciplinare, non può avvenire prima del primo gennaio successivo ai cinque anni, calcolati dall’anno della vendemmia e, nel caso della riserva, addirittura ai sei. Ma nelle annate da ricordare (solo a mo’ di esempio vale la pena di citare i millesimi 1970, 1985, 1997, e i più recenti 2010 e 2012) ci si trova al cospetto di veri e propri fondisti in grado di misurarsi in una titanica e quasi infinita corsa nel tempo: se ben conservate, bottiglie di cinquant’anni e passa possono riservare, a chi ha avuto la pazienza di aspettarne l’evoluzione, sensazioni uniche e irripetibili. Di colore rubino, tendente al granato, apparentemente sdegnoso prima di concedersi in tutta la sua ricchezza olfattiva, austero, pieno, estremamente persistente.
Vino di collina, ha la sua culla in provincia di Siena, in posizione decentrata rispetto al cosiddetto Chiantishire, più vicino al mar Tirreno che all’Appennino centrale. Pur nell’ambito dell’inconfondibile profilo comune, assume peculiarità molto diverse a seconda del terroir, che muta in base all’altitudine, variabile dai 120 ai 600 metri sul livello del mare e, naturalmente dell’esposizione. Come nel caso di altri grandi rossi italiani non esiste una classificazione che renda immediata la percezione della maggiore o minore qualità. Ma è la reputazione del produttore a fare la differenza e a determinare la valutazione di mercato che può oscillare, per un vino in uscita, dai 40 ai 400 euro. Costi di produzione molto elevati, determinati soprattutto dalle rese dell’uva molto basse, dall’uso massivo delle botti di rovere e dal lungo affinamento, e la produzione molto limitata, rendono ogni bottiglia un piccolo capolavoro da riservare alle occasioni importanti.
Già in età moderna, i vini della zona godevano di una buona fama tra gli appassionati. Paradossalmente però il prodotto enologico più conosciuto non era un rosso bensì un bianco, il Moscadello di Montalcino. Anche i vini rossi, tuttavia, avevano un loro appeal. Ricordano le cronache che nel Cinquecento, durante le guerre d’Italia, combattute da Francesco I d’Orleans e Carlo V d’Asburgo, il condottiero e scrittore francese Biagio di Monluc, impegnato nella difesa di Montalcino, trasse non poco ardimento dal rosso nettare conservato in gran copia nelle cantine del posto. Un punto fermo nella storia del moderno Brunello risale alla metà dell’Ottocento. Clemente Santi, un farmacista del posto, si impegnò a mettere a punto un vino rosso puro che iniziò a promuovere in fiere e concorsi enologici. Il primo grande riconoscimento avvenne nel 1869: i giudici della Fiera agricola di Montepulciano assegnarono due medaglie d’argento a quello che per la prima volta fu chiamato Brunello. Ma fu il nipote del farmacista, Ferruccio Biondi-Santi a passare alla storia, con tanto di attestato del ministero dell’Agricoltura risalente agli anni Trenta del secolo scorso, come il vero “inventore” del vino moderno. Se la genesi e la storia dell’esclusivo rosso docg resta legata a doppio filo alla famiglia Biondi Santi, il merito del successo internazionale va ascritto in misura rilevante alla famiglia italo-americana Mariani. Importatori di vini negli Stati Uniti, alla fine degli anni Settanta, realizzarono a Montalcino il Castello Banfi, un sogno meta enologico, coltivato anche grazie alla sagacia del winemaker Ezio Rivella che ha contribuito al dilagare di una vera e propria Brunellomania tra gli appassionati d’Oltreoceano. Da quel momento in poi per i consumatori americani l’austero Sangiovese in purezza, nato nella terra dei tre fiumi, Orcia, Asso e Ombrone, ha conquistato pari dignità rispetto ai migliori Cabernet Sauvignon e Merlot del mondo.
L’appeal internazionale di Montalcino e dei suoi vini è testimoniato dall’acquisizione, avvenuta nel 2016, della Tenuta Il Greppo, storico feudo della famiglia Biondi Santi, da parte della Francese Epi. E dall’interessamento, non sfociato per il momento in una vera e propria trattativa, della LVHM, di proprietà di Bernard Arnault, proprio per il Castello Banfi.
Un cenno in chiusura anche al giro dell’indotto turistico che il vino ha sviluppato in quest’angolo del Senese. Le presenze annue dei cosiddetti enoturisti sono arrivate a toccare quota due milioni e costituiscono il serbatoio naturale per le imprese dell’accoglienza (alberghi e ristoranti) che sono sorte all’interno delle aziende vitivinicole e non solo. Montalcino resta uno degli esempi più fulgidi della grande capacità d’intraprendere degli Italiani e un brand unico nel mondo.
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