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Morricone, la leggenda del pianista sull’Oceano
Un ricordo del celebre compositore che con la sua musica ha arricchito centinaia di pellicole molte premiate con l’Oscar, un tributo assegnatogli alla carriera solo nel 2007.
di Federico Vacalebre
Ricordate Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il pianista nato e cresciuto sul transatlantico Virginian, che non ha mai abbandonato l’Oceano, ma ha conosciuto il mondo attraverso i passeggeri e la musica che lo faceva viaggiare? Ricordate la musica che suonava?
Tra le tante scommesse vinte da Ennio Morricone (Roma, 10 novembre 1928 – Roma, 6 luglio 2020) forse quella di «La leggenda del pianista sull’Oceano» (1998), il film di Giuseppe Tornatore tratto dal romanzo di Alessandro Baricco sul musicista sospeso in mezzo al mare, è stata tra quelle più sottovalutate nei giorni del cordoglio collettivo per la scomparsa del maestro. Siamo ad inizio del secolo scorso, ragtime e jazz sono le nuove musiche del tempo. Accanto alle composizioni originali ci sono Gershwin e Mozart, Scott Joplin («Peacherine rag») e Jelly Roll Morton. In mezzo, l’allora (ingiustamente) non ancora premio Oscar scrive note tenere e struggenti, malate e scapricciate, figlie del tempo che dovevano evocare, eppure capaci di (ri)suonare fresche così tanti decenni dopo. Per una volta la musica applicata è storia di musica nella musica, la metamusica regala al compositore la storia estrema di un artista che si sente capitano della sua nave con pianoforte, sino a decidere di inabissarsi con lei (e con lui) quando sarà il momento di farla saltare in aria.
Riascoltando quella partitura, mi è tornato in mente un viaggio americano in compagnia di Morricone. Era il febbraio 2007, si trattava di una sorta di campagna d’avvicinamento a quell’Oscar alla carriera che l’Academy Award aveva finalmente deciso di attribuirgli dopo che, troppe volte, gli aveva negato quello come autore della miglior colonna sonora dell’anno. Alcuni ricordi sono indelebili, flashback con tanto di prezioso accompagnamento musicale, si intende.
L’applauso più forte, nella sala delle assemblee dell’Onu e, il giorno dopo, al Radio City Music Hall, arrivò con il canto del coyote errante che introduceva il tema di «Il buono, il brutto e il cattivo», anzi «The Good, the Bad and the Ugly». Era la sua conquista dell’America. Dall’Onu Morricone portò a casa complimenti prestigiosi: il segretario generale Ban Ki-moon, una leggenda assoluta del rock come Lou Reed, il «cattivo» Eli Wallach, Angelique Kidjo e Pat Metheny («uno dei maggiori compositori di sempre», disse senza mezzi termini il chitarrista). «Voci dal silenzio», nata pensando a Ground Zero e poi estesa nella dedica, fondamentale per la struttura stessa del brano, a tutte le tragedie dimenticate dalla storia, non riuscì a frenare l’esplosione collettiva quando la Roma Sinfonietta attaccò le partiture delle sue più celebri colonne sonore per diventare un’apoteosi al momento del bis-omaggio a Sergio Leone.
La sera dopo, dal Radio City Music Hall venne l’investitura di star planetaria che ancora, ingiustamente, gli mancava. Gli Stati Uniti di John Williams, Jerry Goldsmith ed Elmer Bernstein hanno aspettato un po’ troppo per riconoscere l’arte del maestro italiano, ma poi l’hanno fatto alla grande. Il palcoscenico era prestigioso, i biglietti (4.500, quasi tutti venduti) costavano fino a 250 dollari, il pubblico univa la comunità italiana della Grande Mela ad americani di ogni età e colore (compresi Brian De Palma e Willem Dafoe). E l’esito fu travolgente. Nelle prove Ennio strapazzò i Canticum Novum Singers, chiedendo alle circa 200 voci suoni e non parole, e se non riuscivano a capire l’importanza di quel «scion scion» se ne andassero pure al diavolo, che la platea il coro post-verdiano a bocca chiusa lo avrebbe cantato senza esitazioni, abbandonandosi al piacere di quelle poche note che sapevano e sanno racchiudere mondi, accompagnare immagini nel gioco del ricordo, ma anche farne a meno, sopravvivendo al film, liberandosene.
Le partiture per «H2S» (Faenza, 1968) e «Maddalena» (Kawalerowicz, ‘71) funzionarono, in fondo, come suoni assoluti, per i più non avevano il sostegno-rimando di pellicole più acclamate. Ancora una volta, Morricone chiese alla musica di farsi utensile sentimentale, lenimento per ferite dell’anima, passaporto per sogni-bisogni, oltre che supporto alla narrazione visiva, che però non c’era, era affidata alla nostra memoria/immaginazione. Gli archi lavorarono su pochi accordi, mentre le orchestrazioni mettevano in campo sordine jazz, assoli di vibrafono, contrappunti d’archi, interventi solisti della pianista Gilda Buttà e del soprano Susanna Rigacci per emulare le cavalcate nel deserto degli eroi – si fa per dire – degli spaghetti western e le costruzioni dell’identità di una comunità, quella degli spettatori/ascoltatori, del devoto popolo morriconiano.
La vischiosità melodica di «Vittime di guerra» (De Palma, ‘89) precedette l’inno di rivolta di «Abolisson» (da «Queimada» di Pontecorvo, ‘69), il pianeta Leone offrì delizie per cowboy («Il Buono…», «C’era una volta il West», «Giù la testa») e non solo («C’era una volta in America»), ma l’applausometro segnalò anche «Gli intoccabili» (De Palma, ‘87), «Nuovo Cinema Paradiso» (Tornatore, ‘88), la mediterraneità quasi da cliché di «Il clan dei siciliani» (Verneuil, ‘69), il tono bacharachiano di «Metti una sera a cena» (Patroni Griffi, ‘68). Non era un caso se la chiusura ufficiale, in tutti e due i concerti, fu affidata all’oboe di «Mission» (Roland Joffè, 1986), il film dell’Oscar mancato.
Avvicinandosi al 25 febbraio 2007, giorno della consegna dell’Oscar, il primo, nel 2016 sarebbe arrivato finalmente quello per «The hateful eight» di Tarantino, mi venne in mente il titolo della prima colonna sonora scritta da Morricone, nel 1961, per un lavoro televisivo di Sergio Giordani, «Alla scoperta dell’America».