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È Napoli, ‘na tazzulella ’e cafè …
Il caffè giunse sulle rive del Golfo con Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, che nel 1768 sposò Ferdinando di Borbone. De Filippo, Daniele, De Crescenzo, solo per citarne alcuni, hanno esaltato qualità, doti e “capacità relazionali” della bevanda tanto cara ai napoletani al pari della pizza, babà e sfogliatella.
di Marco Molino
La signora del quarto piano gira la manovella con pazienza e regolarità affinché i chicchi giallognoli tostino al punto giusto nella speciale padella. Saranno pronti solo quando avranno assunto un inconfondibile “color manto di monaco”, come raccomanda pure Eduardo De Filippo nel monologo di Questi fantasmi. E ciò accade proprio mentre cominciano a sprigionare quell’intenso aroma che si diffonde per tutto il palazzo, che invade le case dei vicini tanto da costringere l’anziana portiera ad arrancare fino all’ultimo piano per chiedere timidamente “na’ tazzulella” per la figlia incinta: la povera ragazza non resiste più, e la madre paventa il rischio – se non soddisfa il suo desiderio – che il bimbo possa nascere “cu’ na’ voglia e café”.
Riavvolgendo questi fotogrammi di vita quotidiana degli anni Cinquanta, qualcuno potrebbe credere che una tale “voglia” sia impressa non sul corpo ma nell’animo di molti napoletani, che hanno accolto nella propria cultura la scura bevanda di origine levantina innalzandola ad emblema di una serena (quando possibile) degustazione dei piaceri, o come compagna fumante per sopportare con filosofia atavici problemi. Talvolta, cantava Pino Daniele, basta “na’ tazzulella e’ cafè ca’ sigaretta a coppa pè nun verè”. Frenesie e preoccupazioni dei tempi moderni vanno giù con un sorso, massimo due. Gesti misurati che conservano memoria della complessa preparazione e assecondano il gusto mediterraneo della convivialità, di una pausa gelosamente ritagliata nell’impeto della città che non si ferma mai.
Il caffè a Napoli è il prodotto di una feconda contaminazione di usi e costumi partita da lontano. Già aprendo i primi sacchi di Kahve giunti a Venezia dalla Turchia nel Seicento, i profumi d’oriente avevano sedotto il vecchio continente. Fu poi nei Kaffeehaus viennesi che la stimolante bevanda ricavata dagli esotici chicchi conquistò i palati di nobili e facoltosi. E appunto seguendo le rotte dell’aristocrazia, il caffè giunse sulle rive del Golfo insieme a Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, che nel 1768 sposò Ferdinando di Borbone. L’autoritaria regina volle il nero infuso sulle tavole di feste e pranzi ufficiali, accompagnato magari dai deliziosi Kipferl, precursori degli odierni cornetti.
Un minuetto di sapori dal quale il popolino era escluso. Per una democratica diffusione dell’amara bevanda, dobbiamo attendere l’inizio dell’Ottocento e l’invenzione della cuccumella, la macchinetta a doppio filtro che consentiva di preparare il caffè anche nelle case più povere. L’attenta tostatura, i chicchi trasformati in polvere nera nel macinino di legno, gli accorgimenti creativi con la caffettiera sul fuoco: rituali da cui è finalmente scaturito un verace prodotto partenopeo. “Prima di colare l’acqua – spiegava il personaggio di Eduardo – bisogna farla bollire per almeno due minuti e nella parte interna della capsula bucherellata si cosparge mezzo cucchiaino di polvere appena macinata – piccolo segreto! – in modo che, nel momento della colata, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo”.
Tutta questa fatica per un sorso, forse due? Ma più che la durata della bevanda, al napoletano interessano le sue “proprietà relazionali”. Intorno ad un caffè si chiacchiera, si sorride, ci si prende una vacanza dalle quotidiane tribolazioni. Volendo anche da soli, in “relazione” con se stessi. Ecco il valore aggiunto del caffè rispetto alla pizza, al babà o alla tiepida sfogliatella. Questi sono ormai brand di successo per la città, ma inquadrati sostanzialmente nell’estasi dei sapori. Invece nel regno “ristretto” della tazzulella, risolta la questione del gusto, si riscoprono tratti illuminanti del carattere partenopeo, quelli che un viaggiatore attento può cogliere entrando in un bar scelto a caso, o perdendosi tra gli ori e gli stucchi del Gambrinus, fondato nel 1860 a pochi passi dal Palazzo Reale. Ancora nel nuovo millennio, camerieri in marsina si aggirano indaffarati nelle sale Liberty, zigzagando abilmente con i vassoi tra i turisti in bermuda che spiano a bocca aperta ogni dettaglio. Il barman che manovra le leve con la scioltezza di un giocoliere, la schiuma fumante che riempie le tazzine, il cliente frettoloso che butta già d’un fiato e l’altro che assapora pigramente in punta di labbra.
Un’atmosfera apparentemente meno nostalgica si respira intorno ai tavolini della Centrale del Caffè a Spaccanapoli. Qui i giovani ipnotizzati dallo smartphone centellinano un espresso con la stessa noncuranza con cui sorseggiano una coca. Ma prima di gridare allo scandalo, ci accorgiamo delle moka esposte in vetrina come in un museo. A rammentarci che il caffè a Napoli è un patrimonio immateriale che evolve sorso dopo sorso, quasi il riflesso di un’attitudine alla condivisione ben testimoniata dall’antica usanza del caffè sospeso, recentemente riaffiorata nel quartiere Sanità. “Quando una persona era felice e andava a prendersi un caffè – raccontava lo scrittore Luciano De Crescenzo – invece di uno ne pagava due. E il secondo andava al cliente che veniva subito dopo. Era un caffè offerto all’umanità”.